Domande e risposte sul mondo dei pesci
a cura di Maurizio Lodola
e M. Letizia Tani

Gli argomenti di discussione fra acquariofili, si sa, non mancano mai: dal tipo di mangime più adatto alle esigenze di quel particolare pesce, a come riprodurre quell’altro con successo, ai valori biochimici dell’acqua che devono essere per taluni in un modo e per tali altri viceversa, ecc., passando infine dai discorsi tecnici a questioni di natura più speculativa, riguardanti aspetti particolari della vita dei pesci. Qualunque acquariofilo che si rispetti ha a cuore i suoi beniamini, imparando tanto più ad apprezzarli quanto più tempo potrà dedicare alla loro cura ed osservazione, documentandosi anche il più possibile per capire meglio le problematiche legate a quel microcosmo liquido che tanto affascina. Fra le varie domande o curiosità che spesso assillano le fertili menti di questi appassionati, alcune talvolta non trovano risposte adeguate nelle spiegazioni approssimative con le quali il negoziante di fiducia o gli amici liquidano argomenti in apparenza banali e che sono invece ben più complessi. Posso citare ad esempio una recente conversazione con un amico, che mi chiedeva, quasi scusandosi per aver concepito questo dubbio stravagante, se i pesci bevono. Ebbene, la questione non è così semplice come il tale l’ha esposta, ovvero la risposta non può essere semplicemente affermativa o negativa, ma implica alcune considerazioni sull’ambiente “interno” dei pesci.

I delicati equilibri che permettono la vita nell’acqua dipendono in parte dalla concentrazione di sali in essa disciolti, sia che si tratti di quella dell’ambiente esterno, oppure di quella contenuta nei tessuti e nel sangue. E’ evidente quindi che i problemi di mantenimento dell’equilibrio interno sono strettamente correlati all’ambiente e come siano diversi a seconda che si tratti di un pesce di mare, di uno di acqua dolce o di un pesce che viva in ambienti salmastri. I principali ioni contenuti nell’ambiente  interno dei pesci sono uguali a quelli dell’acqua di mare (sodio, calcio, potassio, magnesio, cloruri, solfati), ma presenti in quantità inferiore a quella contenuta in un equivalente volume di acqua marina. Ciò significa che la concentrazione dei sali nelle cellule dei pesci dulcacquicoli è maggiore rispetto a quella che si trova nello stesso volume di acqua dell’ambiente che li circonda. Per il principio di osmosi, attraverso le membrane cellulari semipermeabili l’acqua passa dalla soluzione meno concentrata a quella più concentrata. Nei pesci d’acqua dolce, l’acqua che defluisce attraverso le branchie durante gli atti respiratori passa per osmosi nel sangue, attraverso le sottili pareti dei capillari branchiali e delle mucose della cavità orale.  I pesci marini, al contrario, il cui ambiente interno contiene meno sali in soluzione di quanti ne sono contenuti un equivalente volume di acqua di mare, hanno la tendenza a perdere acqua attraverso queste membrane. In entrambi i casi, comunque, i pesci devono bilanciare l’una o l’altra tendenza per preservare il loro equilibrio interno. I Teleostei marini suppliscono alla perdita di liquidi bevendo l’acqua di mare, come si può facilmente verificare aggiungendo una quantità nota di colorante organico (per esempio, il rosso fenolo) all’acqua di un acquario. Misurando poi la quantità di tintura assorbita dall’intestino dei pesci, si può risalire al volume d’acqua di mare da essi ingoiata. Osservazioni sperimentali condotte sull’anguilla, hanno evidenziato che in 24 ore l’animale è in grado di assorbire 10ml d’acqua di mare, oltre ad una certa quantità d’acqua che esso assume dal suo nutrimento. Quando i pesci bevono acqua di mare per non disidratarsi, accumulano nel proprio organismo sali in concentrazioni superiori a quelle normalmente presenti nel loro ambiente interno; per ripristinare l’equilibrio devono quindi eliminare i sali in eccedenza, che vengono espulsi attraverso le branchie o con le feci. L’escrezione è svolta in massima parte dall’apparato renale che, mediante la produzione di urina, elimina i sali ammoniacali e, in piccole quantità, creatinina ed acido urico; le branchie provvedono invece ai prodotti azotati più semplici, i composti di urea e di ammonio.

I pesci cartilaginei, quali razze e squali, si sono sottratti allo stress fisiologico affrontato invece dalla maggior parte dei pesci marini grazie ad una particolare adattabilità biologica: producono urea anziché sali ammoniacali ed espellono pochissima urina, aumentando così la concentrazione salina del sangue che raggiunge valori di poco superiori a quelli dell’acqua di mare. Ciò significa che questi animali non hanno bisogno di bere l’acqua di mare, perché quella che circola nel loro corpo attraverso le branchie e la bocca è sufficiente all’attività di filtraggio dei reni. Forse è stata proprio questo adattamento biochimico a confinare i pesci cartilaginei in mare, anche se esistono alcuni rappresentanti delle acque dolci (razze del genere Potamotrigon), ma non esiste alcuna testimonianza fossile che dimostri che i Condroitti siano stati membri rappresentativi della fauna dulcacquicola.

Per quanto riguarda invece i pesci d’acqua dolce, essi hanno un sangue meno salato di quello dei Teleostei marini, ma comunque molto ricco di sali se paragonato all’acqua in cui vivono. La loro tendenza sarà quindi quella di diluire la concentrazione salina interna facendo liberamente affluire acqua dalle branchie e dalle membrane mucose. Uno sviluppato apparato renale provvede poi ad eliminare l’acqua eccedente insieme alle scorie azotate del metabolismo: i pesci d’acqua dolce, infatti, producono un’abbondante quantità di urina, in un giorno circa 10 volte il loro peso; al contrario, i pesci marini eliminano pochissima urina, piuttosto concentrata, per evitare di disidratarsi.

Questi meccanismi regolano l’equilibrio idrico; invece, a quello salino provvedono lo stomaco, che arricchisce il sangue di sali prelevati dal nutrimento, e soprattutto le branchie, che nei pesci d’acqua dolce sono in grado di assorbire selettivamente i sali dall’acqua; al contrario, nel caso dei Teleostei marini le branchie provvedono ad espellere l’eccedenza di sali introdotta con l’acqua ingerita.

Oltre al ruolo insostituibile che hanno nella respirazione, le branchie dei pesci regolano quindi anche l’equilibrio idrosalino, eliminando o assorbendo i sali a seconda delle necessità fisiologiche dei pesci, permettendo così la propagazione di molte specie in differenti tipi di habitat acquatici. Pesci molto diversi sono in grado di vivere in acque il cui contenuto salino varia dalle condizioni oceaniche a quelle delle acque dolci (specie eurialine), tuttavia, la maggior parte dei pesci, sia marini che d’acqua dolce, si limitano strettamente all’uno o all’altro ambiente. I pesci che effettuano migrazioni, come i salmoni e le anguille, sottopongono il loro ambiente interno ad importanti variazioni di salinità; altri, come i Ciprinodontiformi, sono in grado di sopportare sbalzi di salinità considerevoli ed istantanee. La larga adattabilità delle specie di pesci che vivono in acque salmastre dipende in massima parte dalla straordinaria attività delle branchie e dei reni, da una debole permeabilità della loro pelle all’acqua e da complessi meccanismi che coinvolgono l’apparato endocrino e nervoso. Il coordinamento delle funzioni che regolano l’equilibrio idrosalino dei pesci ha ancora bisogno di studi approfonditi, che riescano a spiegare in maniera convincente perché l’adattamento a gradienti diversi di salinità si è spinto principalmente verso le acque dolci, piuttosto che verso il mare, coinvolgendo non solo i pesci ma anche molti invertebrati acquatici. Perché, in linea di massima, è più facile ad un pesce marino passare in acqua dolce che non il contrario? Forse le branchie della maggior parte dei pesci di acqua dolce sono incapaci di invertire la loro funzionalità, passando dall’assorbimento all’escrezione dei sali; ma se davvero è questo il limite, non si spiega in ogni caso perché il passaggio inverso sia possibile per un largo numero di pesci marini. Molte domande su questi aspetti della fisiologia dei pesci rimangono ancora di difficile risoluzione. 

Di tutt’altro genere è invece un’altra domanda che ci sente porre spesso: i pesci dormono? Il sonno è uno stato fisiologico comune a tutti i Vertebrati, con il quale l’organismo si riposa, recuperando parte delle energie perse durante il quotidiano metabolismo, rallentandolo per un certo periodo di tempo, per poi ritornare alla consueta attività. Mentre si dorme, tutti i processi metabolici si riducono notevolmente: il corpo tende ad assumere una posizione statica; la respirazione si fa più lenta e regolare, come pure il battito cardiaco; gli apparati sensoriali abbassano la loro soglia di percezione, rallentando la frequenza degli impulsi nervosi trasmessi al cervello. Tutto questo avviene ad un ritmo circadiano - con modalità variabili da specie a specie, ma anche da individuo a individuo – nelle diverse classi dei Vertebrati, ma ovviamente ciò che si intende per dormire nella specie umana è molto diverso dal sonno praticato da un pesce o da un altro animale. L’estrema variabilità delle modalità di riposo attuate dalle diverse specie animali rende impossibile una generalizzazione del fenomeno biologico del sonno; le ricerche finora condotte hanno seguito un approccio sia fisiologico che etologico, per comprendere i complessi meccanismi e le possibili funzioni di questo particolare comportamento. In ogni caso è certo che esistono fattori comuni, rilevabili in maniera oggettiva ed inequivocabile: fra questi si nota subito l’immobilità degli animali impegnati a dormire, indipendentemente dalla durata del loro periodo di sonno; inoltre, un animale che dorme risponde in maniera minima alle stimolazioni esterne, al punto di poter essere manipolato senza che mostri reazioni evidenti. Certi pesci mentre dormono possono addirittura essere trasportati in superficie prima di manifestare qualche segno di reazione. Il fatto che i pesci siano sprovvisti di palpebre o di membrana nittitante (presente solo in qualche pesce cartilagineo), e stiano quindi sempre ad occhi aperti, non ci deve indurre a pensare che non dormano: al contrario, il sonno dei pesci è stato ampiamente documentato da osservazioni sia sperimentali che condotte in natura. I luoghi scelti per questa attività sono i più disparati, spaziando dalle tane fra le rocce, in mezzo alla vegetazione, dentro tronchi cavi, a pelo d’acqua o sul fondo. La scelta di questo spazio è del resto molto importante per ridurre la pressione predatoria: certe specie presentano una particolare fedeltà  al sito dedicato al riposo, tornandovi quotidianamente; altre specie, invece, che vivono in banchi comuni nelle grandi distese pelagiche, prive di ripari, operano sessioni di sonno durante le quali dormono gran parte dei membri del gruppo, mentre altri vigilano attentamente nei confronti di eventuali predatori. L’orologio biologico degli animali ha fatto coincidere il sonno con quei periodi del giorno in cui le condizioni ambientali sono meno favorevoli. Pesci vistosamente colorati, che devono alla loro livrea la capacità di riconoscimento specie-specifica, saranno quindi attivi durante le ore di luce diurna e dormiranno principalmente di notte; invece, le specie caratterizzate da adattamenti che consentono loro una maggiore efficienza al buio, dormono di giorno. Alcuni pesci hanno perfezionato la loro attività di sonno con dei rituali preparatori, i quali – visti in un’ottica etologica – servono non solo a garantire loro un migliore riposo, ma grazie a  questi  accorgimenti  riducono il rischio di essere predati: è il caso del pesce pagliaccio, che si ritira a dormire negli anfratti corallini avvolgendosi in un rivestimento mucoso repellente ai predatori, oppure del ghiozzo scavatore, il quale si premura di ostruire con un sasso la cavità del tunnel che si era scavato per passare la notte.

La diversa natura e la complessità dei comportamenti esibiti dai diversi animali, pesci compresi, nelle attività che precedono la condizione del sonno, hanno indotto ormai a considerare questo stato come un elaborato modulo comportamentale, anziché un semplice stato fisiologico, di estrema importanza per la sopravvivenza.

Concludiamo, infine, con un’ultima digressione riguardante un problema che tutti quelli che, per hobby o per lavoro, hanno a che fare con gli animali dovrebbero porsi: la sofferenza. Il dolore difficilmente può essere rilevato in maniera oggettiva e incontestabile, soprattutto in animali “muti” come i pesci. Tuttavia molti acquariofili avranno sicuramente avvertito la penosa sensazione trasmessa dallo stato di evidente sofferenza legata a condizioni di malattia o di stress provate talvolta dai loro pesci. Indiscutibilmente il dolore è un fattore importante nel quadro delle strategie per la sopravvivenza, poiché molte delle condizioni dolorifiche vengono apprese dall’animale che le associa a situazioni negative, da non ripetersi; in tal modo si dimostra la diffusione della sensazione del dolore nel mondo animale, ma non che il dolore provato dall’animale possa essere uguale a quello che proverebbe un essere umano nel medesimo frangente. La crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questo spinoso argomento è d'altronde giustificata dalle indubbie omologie anatomiche e fisiologiche con l’uomo, che si fanno sempre maggiori salendo nella scala evolutiva. Infatti, il cervello di qualsiasi tipo di vertebrato – pur con le innegabili differenze che si riscontrano nelle diverse specie – funziona seguendo dei basilari principi anatomici, fisiologici e biochimici. Altrimenti non si spiega l’utilità dello studio comparativo di semplici organismi cordati per comprendere le principali funzioni che permettono la vita degli altri vertebrati, mammiferi compresi, e, quindi, anche dell’uomo. Gli enormi progressi fatti negli ultimi decenni dalla biologia molecolare hanno permesso di individuare i meccanismi che regolano la neurotrasmissione – cioè il passaggio degli impulsi nervosi ai vari distretti encefalici – appurando che le molecole responsabili delle informazioni fra i neuroni hanno una struttura quasi uguale in tutte le specie animali. In conclusione, le molecole che regolano lo stato fisico del cervello, e di conseguenza anche gli stati mentali, hanno la stessa funzione in noi e in tutti gli altri animali. Procedendo in questa analogia, è quindi lecito affermare – sebbene sia impossibile dimostrarlo – che anche gli animali soffrono, di dolore fisico, perché i loro mediatori chimici del dolore hanno la stessa  funzione di quelli della nostra specie. A seguito di queste conoscenze, consapevoli che gli animali sono uguali a noi, per lo meno nella capacità di provare dolore, il problema della sofferenza animale si impone improrogabilmente alla nostra coscienza. Ma qual è allora la soglia del dolore negli animali, soprattutto quando si ha a che fare con specie che trasmettono le loro sensazioni attraverso forme di comunicazione ben lontane dal linguaggio verbale e visivo di noi umani? Mettendo a confronto studi e dati della zoologia, dell’etologia, della neurofisiologia, ecc., sono stati compilati parametri scientifici attestanti l’esistenza del dolore nel mondo animale, i quali permettono una valutazione obiettiva e non antropomorfica. Alla luce di tutto ciò, la differenza più significativa fra la condizione dolorifica provata dall’uomo e quella degli animali sta nel fatto che solo i primi possono esprimere il dolore attraverso il linguaggio.